sabato 6 settembre 2008

OK, COMINCIAMO!

Ringraziando quei 4 perditempo che hanno espresso il loro voto nel sondaggio (fra cui il sig. Marco “Hellrider” Pascucci, che mi ha assistito tecnicamente durante la creazione di Visions Of Dystopia), e notando che nessun argomento è stato votato più degli altri, deciderei di incominciare dando uno sguardo alla letteratura distopica per 2 motivazioni:

1) Dare un idea ancora migliore dell’argomento, dato che il nome stesso di questo blog non è molto suscettibile di altre interpretazioni;

2) Pubblicare, “riciclandola”(!) parte della mia tesi di laurea, “Distopie a confronto”, nella cui introduzione ho cercato di definire le coordinate stilistiche e contenutistiche di questo particolare genere letterario, situato a metà strada tra il romanzo e la riflessione politica-filosofica.

Colgo l’occasione per ringraziare il Dr. Giacomo Scalfari, da me citato a pag. 60 della mia tesi, per il suo saggio “Terra Guerra Magia: Antica tradizione indoeuropea dai Celti a Re Artù. Una moderna indagine sul funzionalismo tripartito degli Indoeuropei”, per la sua disponibilità allo scambio di idee, per avermi “ispirato” nella creazione di questo spazio, e per avermi segnalato nel suo interessante e atipico blog, LA SCARPA DI VIDAR.

Buona lettura.


INTRODUZIONE


1. Utopia. Dal pensiero alla parola

Quando si parla di romanzo o letteratura utopica, ci si riferisce a quella produzione scritta nella quale la storia narrata ha per teatro un tempo e un luogo dove società, culture e consuetudini sono in un rapporto di alterità rispetto a quelle “reali”, cioè date dal contesto storico nel quale sono state concepite. Etimologicamente, utopia è un prestito, latinizzato, dal greco classico, composta dal sostantivo topos , “luogo”, e dal prefisso…… ou-, che ne modifica il significato nel senso di “non-luogo”[1].

È opportuno precisare che si tratta di “non-luoghi” differenti da quelli in cui è ambientata altra letteratura come la Fantascienza, il Fantasy, la “Sword & Sorcery”, il romanzo storico, la fiaba o il mito. Infatti, nella fantascienza il fattore caratterizzante è l’elemento tecnologico, la scoperta rivoluzionaria, intorno al quale ruota la storia. Malgrado l’astronave, la macchina del tempo o l’invasione aliena, l’uomo continua a condurre la propria esistenza nello stesso modo e la società, in sostanza, non è mutata: ad esempio, le colonie lunari del futuro cercano l’indipendenza dal potere terrestre, esattamente come le tredici colonie Americane, nel passato, cercavano di ottenerla dall’Inghilterra. In questo caso, la scienza è solo un mezzo per gli stessi fini. Il laser del futuro sostituisce il fucile dei patrioti americani del 1775.

Ciò che caratterizza la letteratura utopica o distopica come quella eutopica, cacotopica o eterotopica è l’elemento umano, la mutazione nella struttura della società[2] (da cui anche la definizione di fantapolitica), indipendentemente dal novum[3] scientifico-tecnologico essenziale per il genere della fantascienza, o la parziale sospensione della logica aristotelica presente a volte nel Fantasy.



[1] La natura di questo prefisso (e di altri come dis-, u- , eu-, caco-, etero-) è in genere data dal confronto con il topos nel quale l’opera è stata concepita. In modo più univoco, l’eutopia descrive un mondo migliore di quello in cui vive l’autore, mentre la cacotopia uno peggiore, così come, vedremo, utopia e distopia sono in rapporto di opposizione semantica.

[2] “Non esiste utopia senza una rappresentazione totalizzante e distruttiva dell’alterità sociale”. B. Baczko, L’utopia, Torino, Einaudi, 1979 (p. 21).

[3] “Il secondo assioma della critica di fantascienza potrebbe essere quello di pretendere che la fantascienza esprima un livello di cognizione superiore a quello del suo lettore medio: la strana novità - il novum – è la sua rasion d’ètre”. D. Suvin, Metamorfosi della fantascienza, Bologna, Il Mulino, 1985, (p. 54).

2. Utopico vs Distopico. Una breve storia dei due generi letterari

Il concetto letterario di utopia si afferma già con Omero, che descrive il giardino di Alcinoo (Odissea,VII) come sempre fiorito e rigoglioso. Si sviluppa nell’antichità classica con Esiodo e Pindaro, mentre Platone (in Repubblica e Leggi) discetta di società ideali e leggi umane. In epoca cristiana S. Agostino (354-430) predica l’avvento della Civitate Dei su questa terra, mentre secoli più tardi Dante Alighieri (1265-1321) nel De Monarchia e S. Tommaso d’Aquino (1221-1274) contribuiscono all’idea della società perfettamente retta, governata con saggezza e giustizia.

Con Thomas More, però, abbiamo finalmente, nel 1518, una prima “configurazione” del luogo in questione. Nei due libri che compongono Utopia vediamo rappresentata, nella forma classica del resoconto di viaggio ( l’opera fu concepita nell’epoca delle grandi scoperte geografiche) di un abitante di Utopia, la terra lontana dove le istituzioni sono le migliori che si possano immaginare, la vita è felice per tutti, e ogni cittadino è consapevole dei propri diritti e doveri, realtà che viene messa a confronto con quella dell’autore, l’Inghilterra di Enrico VIII e dello scisma anglicano[4]. Sempre in Inghilterra, J. Swift si serve ancora dell’espediente del viaggio per far descrivere al suo Gulliver le strane terre popolate da uomini giganti e minuscoli nonché da cavalli più saggi degli esseri umani.

In Francia, l’utopia divenne oggetto di studio e speculazione da parte di filosofi come Fourier, Saint Simon e Rousseau i quali, dall’illuminismo settecentesco al socialismo utopico di primo Ottocento, teorizzarono, analizzarono e ipotizzarono i cambiamenti da operare nella società umana per renderla migliore, tra fede e ragione, materialismo e idealismo. E ora, arrivati (in questa approssimativa enunciazione cronologica) alla metà del XIX secolo, è possibile soffermarsi sulla descrizione dell’altro luogo “inesistente”, la Distopia

3. Dalla città celeste alla città infernale

La paternità del termine distopia[5] viene attribuita a John Stuart Mill[6], che ne fece riferimento durante un discorso ufficiale nel 1868, intendendo definire così un luogo dalle caratteristiche opposte a quelle dell’utopia. Al di là delle singole differenze, i caratteri di analogia tra le opere che appartengono al genere distopico sono: l’ambientazione in un futuro “alternativo”; un “errore” nella realizzazione dell’utopia originaria; un’apparente “perfezione” che però nasconde conflitti profondi; una società rigida, gerarchica e centralizzata; l’imposizione di modelli di comportamenti sociali finalizzati a consolidare e a perpetuare lo stato di cose; la necessità “storica” di un evento che annichilisce il vecchio e da cui scaturisce il nuovo ordine (una guerra, una catastrofe economica, politica o ambientale); la presenza di un protagonista, l’elemento “umano” che cerca di ribellarsi al potere (o alla sua personificazione) a prescindere dalla riuscita dell’impresa. È quindi dalla metà dell’Ottocento che alcuni scrittori pubblicano i primi lavori che presentano alcune di queste principali caratteristiche: in The Begum’s Fortune (1879), J. Verne mette a confronto l’utopica città di Frankville con la distopica Stahlstadt mentre H. G. Wells con When The Sleeper Wakes (1899) e The First Man On The Moon (1901), descrive la prima società distopica, quella aliena dei Seleniti.

4. Cambia il punto di vista

Con il Novecento, la nascita della società di massa e la crisi tra le due guerre mondiali, le distopie affrontano temi più strettamente “politici”, collegando ancor di più il reale e la fiction; il modernismo (in senso lato), sensibile alla nascita di quel nuovo elemento sociopolitico che è il regime dittatoriale-totalitario, lo avvolge nelle maglie del testo letterario codificando ulteriormente i canoni del genere. Come nelle utopie tradizionali, lo spazio riservato alla speculazione socio-filosofica si amplia e, anzi, ne diventa il topic. Facendo riferimento a Wells, l’uomo diventa il Selenita della Terra senza abbandonarla con alcuna nave spaziale.

Fra i primi esempi di letteratura distopica moderna si può citare The Iron Heel (1907) di J. London, The Air Trust (1915) di G. A. England, The Unknown Tomorrow (1910) di W. Le Queux, Anthem (1938) di A. Rand, Land Under England (1935) di J. O’Neill, Meccania (1918) di O. Gregory. Fuori dai paesi anglofoni bisogna ricordare opere seminali come Noi (1924) del russo E. Zamjatin[7] e Metropolis (1912), di T. Von Harbou, adattato per il cinema nel 1927 dal marito, il regista tedesco F. Lang.

Dal dopoguerra abbiamo le prime opere che sconfinano nella fantascienza, come The Space Merchants (1953) di F. Pohl e C. M. Kornbluth, Preferred Risk (1955) di E. Mc Cann, Fahrenheit 451 (1953) di R. Bradbury, e in tempi più recenti libri o pellicole come Blade Runner e The Man in the High Castle di P. K. Dick, Neuromancer, Johnny Mnemonic e Mona Lisa Overdrive di W. Gibson (esponenti di un nuovo genere, il Cyberpunk: conflitti ad alta tecnologia in uno scenario post-capitalista), Brazil, The Matrix, Nirvana, 12 Monkeys, e le dissertazioni scientifico-filosofiche che caratterizzano la narrativa di I. Asimov.



[1] La natura di questo prefisso (e di altri come dis-, u- , eu-, caco-, etero-) è in genere data dal confronto con il topos nel quale l’opera è stata concepita. In modo più univoco, l’eutopia descrive un mondo migliore di quello in cui vive l’autore, mentre la cacotopia uno peggiore, così come, vedremo, utopia e distopia sono in rapporto di opposizione semantica.

[2] “Non esiste utopia senza una rappresentazione totalizzante e distruttiva dell’alterità sociale”. B. Baczko, L’utopia, Torino, Einaudi, 1979 (p. 21).

[3] “Il secondo assioma della critica di fantascienza potrebbe essere quello di pretendere che la fantascienza esprima un livello di cognizione superiore a quello del suo lettore medio: la strana novità - il novum – è la sua rasion d’ètre”. D. Suvin, Metamorfosi della fantascienza, Bologna, Il Mulino, 1985, (p. 54).

[4] Utopia è scritto in latino, ed e’ composto di due libri. Il primo contiene un dialogo fra l’autore, Thomas More, il suo amico umanista Peter Gilles e un personaggio di fantasia, Raffaele Itlodeo, uno strano tipo di viaggiatore-filosofo, che è stato con Vespucci nel nuovo mondo. Itlodeo fa una vera requisitoria contro la situazione inglese (ma più in generale europea) dell’epoca. È dunque chiaro che, dietro lo schermo del viaggio in un paese di fantasia e del personaggio di un viaggiatore colto e riflessivo, More esprime una critica radicale alla situazione esistente. Il carattere di gioco erudito traspare in molti aspetti di Utopia, primo fra tutti l'origine greca dei nomi: Itlodeo significa “raccontafrottole”, la capitale Amauroto “citta' invisibile”, il fiume che la bagna, Anidro, significa “senz’acqua”. E sullo stesso nome dell'isola More stende un velo di ambiguità quando gioca su due possibili etimologie greche: oú-topos (luogo che non esiste) o eú-topos (luogo delle buone leggi). Ma Utopia non è un semplice gioco. Se ha le sue radici in una tradizione di racconti di viaggio in terre sconosciute, essa riprende anche l’idea di Platone (nella Repubblica) dell'elaborazione di un progetto di stato ideale, e lo fa con un’affermazione dell’autonomia dell'intellettuale che è già propriamente moderna. Questo carattere non abbandonerà più tutta la letteratura che dall’opera di More prenderà il nome, la letteratura utopica.

[5] È interessante notare come “distopia” sia anche un termine con il quale la scienza medica indica una “malformazione consistente nella irregolare posizione di un viscere”. (Cfr. Dizionario Garzanti della Lingua Italiana ediz. 2003, Milano, Garzanti, 2002)

[6] John Stuart Mill (1806-1873). Celebre economista nonché filosofo, entrò nell'ufficio centrale della Compagnia delle Indie nel 1823, per poi divenirne il capo nel 1856. Fu deputato per due legislature e venne a contatto con l’opera di Bentham, Saint-Simon e di Comte. Fu assertore di un deciso empirismo, convinto che ogni reale autenticità fosse racchiusa nell’analisi dei fatti; per quanto riguarda le scienze morali predicò la necessità di applicare alla disciplina il rigore delle scienze fisiche.

[7] Evgénij Ivànovic’ Zamjàtin, ingegnere e scrittore, ex bolscevico, emigrato a Parigi nel 1931. Noi (fra i principali ipotesti dello stesso 1984) circolò come manoscritto, in realtà, già dal 1921. (cfr. A. Flaker, in Storia della civiltà letteraria Russa, Torino, Utet, 1997, pp. 271-274).



domenica 31 agosto 2008

Guarda un pò chi si rivede.

Erano 8 anni che non entravo nel cortile della scuola S. Giovanni Bosco a Torremaggiore, comune a pochi kilometri da dove abito. Per chi non lo sapesse, quel posto è stato teatro di una delle migliori occasioni per suonare dal vivo mai avute in Capitanata, cioè il festival Torstock, iniziato nell'estate del 1995 (credo) e tenutosi fino al 2000, organizzato da gente capace di far miracoli. Poi, cambi di amministrazione comunale e silenzio per 7 anni. Nel 1998 ci suonai con i miei amici dei Tregenda (Heavy Rock Occulto-psichedelico), mentre nell'ultima edizione prima del black out (2000) ebbi la fortuna di rodare la mia creatura, i Cerberus (Black Metal sperimentale old-style). Ma ieri sera ho avuto modo di notare come sia stato difficile riprendere al meglio dopo tanto tempo. Qualche problema tecnico, una relativamente scarsa affluenza di pubblico, e, oltre a un gruppo di ragazzini davvero bravi, la conferma che le redini della manifestazione sono state affidate prevalentemente agli stessi personaggi che l'hanno già tenute in passato. Ragazzi di 15-18 anni nel pubblico, musicisti (di indubbia qualità, sia chiaro) ultratrentenni sul palco, adulti capitati lì per caso o per sorvegliare la propria prole. E i gruppi seri di gente intorno ai 25 anni? Davvero c'è questa penuria di persone motivate a scuotere una scena musicale nutrita artificialmente con la flebo dell'autoindulgenza, quando a 30 kilometri di distanza (Foggia su tutte) sono sempre stati 10-15 anni avanti a noi, poveri provinciali? Davvero il futuro della musica seria è a rischio per la mancanza di nuove leve? Fra 10 anni, allora, mi prenoto anch'io per suonare, magari davanti ai miei cuginetti che ne hanno adesso fra i 5 e i 6, finchè morte (artistica) non ci separi. Amen.